Anche Ripley cade sul “documentarsi”

La serie “Ripley”, prodotta da Showtime e distribuita poi da Netflix, sta raccogliendo ampi consensi. E non è difficile individuarne i motivi: una tensione palpabile; un protagonista misterioso ed enigmatico ma a tratti anche pasticcione; il bianco e nero che se ben gestito regala sempre grandi soddisfazioni; uno script che non nasce da registi o produttori improvvisati, ma dalla penna di una grande scrittrice; la regia chirurgica; le citazioni all’inquietudine artistica e di vita di un personaggio della caratura del Caravaggio; e infine una cura per i dettagli a dir poco maniacale.

I primi piani sui gettoni del telefono – sul mobilio di modernariato, sui capi di abbigliamento vintage, sulle auto degli anni ’60 – rappresentano un valore aggiunto al prodotto che dimostrano cura ed expertise nella produzione.

Tutto vero. Finché non compare l’Ispettore Pietro Ravini.
Senza cadere in alcuno spoiler, si può dire che L’Ispettore viene chiamato, dalla Centrale Operativa, per indagare. E indaga.
Tutto perfetto.

Se non ci fosse un problema insuperabile: in Italia in quel periodo gli Ispettori di polizia non esistevano!
Vennero introdotti solo con la legge 121 del 1° aprile 1981 (già, la legge che istituisce la moderna Polizia di Stato è stata promulgata il giorno degli scherzi). Negli anni ’60 non esisteva nemmeno la Polizia di Stato, a ben vedere, ma il Corpo delle Guardie di Pubblica Sicurezza (quelle del gioco Guardie e Ladri). Un corpo militare nel quale lavoravano Brigadieri e Marescialli, Tenenti e Capitani, tutti in divisa con le stellette dell’Esercito Italiano al bavero. Ma la dirigenza era civile: Commissari, Vicequestori e Questori che lavoravano in giacca e cravatta. A completare questo strano ibrido c’era il Corpo di Polizia Femminile composto (questa volta sì) da Ispettrici e Assistenti, che lavoravano in divisa ed erano relegate a compiti connessi con donne e minori. C’era poi a Roma, sotto al Capo e ai Vicecapi di polizia, un Ispettore Generale, che però si guardava bene dall’indagare su alcunché, trattandosi di un ruolo di pura direzione ministeriale.

Gli Ispettori insomma non c’erano. Furono creati con la smilitarizzazione della Polizia del 1981 prendendo a modello i Detective americani e molto si potrebbe dire sul reiterato fallimento di questa figura nel corso degli anni, fallimento alimentato con entusiasmo dall’invidia e dall’incompetenza della classe dirigente, e dal populismo becero dei sindacati.

Ma tornando a Ripley, è un vero peccato che una serie ben studiata e realizzata come questa cada su un dettaglio così semplice, benché insidioso. Di certo molte persone non l’hanno notato, come non noterebbero un’Italia unita nel 1847, o Giotto che dipinge un pomodoro, o un Presidente della Repubblica eletto nel 1938.
Ma non è l’unico inciampo presente nella serie: in Liguria e a Napoli investigano due Sergenti, un grado che, nella Polizia italiana, non è mai esistito. E a Palermo il Tenente, che ogni tanto viene chiamato Ispettore, lavora in borghese anziché in divisa.
Tutti questi errori grossolani sono relativi soltanto alla sfera dell’attività di polizia, e nascono tutti dallo stesso peccato originale: non essersi documentati a sufficienza su un argomento (di certo ostico, perché relativo a un cambiamento di procedure tecnico/giuridiche nel tempo), che però incide sul risultato finale (solo per gli occhi esperti) in un modo significativo.
E dire che avevo evidenziato proprio questo specifico rischio nel mio primo libro: Delitti e castighi. Mai inserire un Ispettore di Polizia, in Italia, prima del 1981. Una regola semplice, spesso calpestata…